lunedì 1 settembre 2014

Tra l'Ortis e il Werther

Quando ieri sera ho finito di leggere "I dolori del giovane Werther" ho iniziato a pensare a numerosi confronti tra questo libro e il suo simile nostrano, "Ultime lettere di Jacopo Ortis". Banale forse, ma poter leggere entrambi i testi permette una visione più completa che spesso studiando su libri di testo non si ha.
Si ricalca sempre la somiglianza del testo di Ugo Foscolo con quello di Goethe, lo si cita sempre come fonte e modello, ma se v'è tanto di simile v'è altrettanto di differente. Andiamo per punti.

SIMILITUDINI

Entrambi i protagonisti vivono una sofferenza interiore dovuta all'amore per una donna promessa di un altro; vi è un periodo idilliaco nel quale la coppia comunque si frequenta e il protagonista è relativamente felice; l'idillio viene rotto dalla comparsa del rivale in amore; si arriva ad un punto di rottura nel quale il protagonista perde ogni speranza, inizia a perdere i contatti con la realtà e medita la morte, fino ad arrivarvi per suicidio. Sia Jacopo che Werther scrivono ad un amico, Lorenzo Alderani l'uno e Guglielmo l'altro, e entrambi si raccomandano ai rispettivi amici di consolare le madri.
Vi sono inoltre scenette simili, come il rapporto dei protagonisti con il popolo nella città in cui vivono, l'attaccamento iniziale ed il rifiuto successivo dei libri classici o il ritratto della donna amata. O anche concetti assolutamente identici, come il ritorno ad un'infanzia interiore stando a contatto con fratelli e/o sorelle della donna amata.

DIFFERENZE

Da principio vediamo come in Foscolo è presente il tema politico -l'avversione a Napoleone-, ma non sarebbe così importante ai fini della mera trama se non fosse per il fatto che con questa "scusa" il nostro Jacopo ha un motivo effettivo per andare via di casa e scrivere a Lorenzo, che nel frattempo si è trasferito a casa sua e può leggere le lettere a sua madre; d'altro canto Werther è in questo nuovo paese non si sa bene dove o perché (anche se il dove è possibile rintracciarlo Goethe cerca di camuffarlo per renderlo meno pertinente ai fini della storia).
Quando Werther si avvicina al popolo lo fa in maniera quasi tenera ed innocente, è interessato anche all'uomo più umile e la sua storia per il suo attaccamento, come dice, alle persone infelici; quando invece Jacopo si avvicina al popolo lo fa in maniera altezzosa e superbia, quasi fosse in presenza di scimmie poco ammaestrate che rimangono basite davanti a cotanta sapienza.
I due rivali, Odoardo e Alberto sono completamente differenti, da principio per come sono visti dai protagonisti e poi per le loro azioni. Odoardo è ampiamente criticato da Jacopo per i suoi modi vuoti e quasi senza senso poiché non è pieno di passione come lo è lui, e nonostante abbi una vastissima biblioteca per Jacopo sono senza scopo se poi l'animo di Odoardo non è abbastanza sentimentale per farsi idee proprie e portarle avanti come battaglie come invece lui fa. Alberto, d'altro canto, è molto stimato da Werther, diventano anche amici e si mandano lettere. Alberto non è affatto uno sciocco e capisce che a Werther piace Charlotte e per questo si allontana, ma non vi sono mai scontri diretti tra i due, se non sulla visione del suicidio che Alberto critica duramente.
A differenziare i due poi è il fatto che Jacopo è sempre in preda al furore, è sempre in agitazione, in movimento e fisicamente in corsa. Questa differenza non è da trascurare poiché è spronando il cavallo ad una corsa folle verso la morte Jacopo uccide un uomo, mentre Werther assiste ad un omicidio ma non ne prese parte in alcun modo.
I due punti di rottura ho notato che avevano aspetti incredibilmente diversi: nel Werther i noci sotto i quali lui e Charlotte erano soliti stare insieme e passare i pomeriggi sono tagliati dalla moglie del nuovo sagrestano, il che implica la fine dell'idillio; in Foscolo invece per una tempesta, che rappresenta la tempesta interiore di Jacopo, una chiesa viene distrutta, simboleggiando così la morte di dio. In entrambi vi è la componente religiosa sagrestano/chiesta, ma mentre nel primo è una donna e quindi potremmo vedere una sorta di opera divina nel far finire l'idillio, nel secondo caso è un fulmine a distruggere la chiesa e se assumiamo che è stato dio a volerlo, dio avrebbe distrutto il posto dove si diffonde il suo verbo, che non avrebbe senso, e allora è il destino che ha voluto così per dimostrare a Jacopo che dio non c'è e non c'è nemmeno speranza, che tutto è finito e che tutto è andato perduto. A mio avviso, la distruzione della chiesa ha un impatto maggiore.
Lorenzo e Guglielmo, inoltre, sono i tramiti delle passioni e delle ansie dei protagonisti, ma rivestono ruoli diversi. Guglielmo è semplicemente un amico al quale Werther scrive; Lorenzo, invece, è "il nuovo Jacopo", poiché è lui che raccoglie gli scritti dell'amico morto, è lui che viene accolto in casa della madre ed è lui che è considerato da Jacopo come il nuovo figlio della madre poiché lui sta per morire. Jacopo investe Lorenzo dell'incarico di sostituirlo in vita e di raccogliere le sue memorie così da aver lasciato qualcosa prima di morire, e Lorenzo ricostruisce Jacopo attraverso le lettere e la diffusione di queste.

In sostanza devo dire che per leggere Foscolo impiegai mesi, per Goethe un giorno appena. In questo modo sottolineo la maggiore fruibilità del secondo testo, ma se è vero che ho apprezzato di più Werther come persona è vero anche che la simbologia di Foscolo mi è sembrata più incalzante e decisa.

mercoledì 6 agosto 2014

"I Guardiani della notte": tra opinione e dato di fatto

Qualche tempo fa, passeggiando tra gli scaffali della Feltrinelli di Galleria Alberto Sordi, noto un libro dalla copertina interessante: leggo il titolo, l'autore e la didascalia
"La saga fantasy di culto della nuova Russia".
Al che il mio interesse sale notevolmente in quanto non ho mai letto opere di autori russi e sono curioso di leggere in primis un autore che non conosco, e successivamente di scoprire se lo stile in Russia si differenzia molto da quello più occidentale.
Tutto potevo aspettarmi da "I Guardiani della notte", saga fantasy, fuorché un libro nel quale i giudizi li devo dare io. Per spiegare questo fatto vorrei riportare gli incipit dei tre libri ("I Guardiani del giorno" e "I Guardiani del crepuscolo"):
- "Si autorizza la diffusione del presente testo a sostegno della causa della Luce"
                                                                               - La Guardia della Notte
  "Si autorizza la diffusione del presente testo a sostegno della causa delle Tenebre"
                                                                                     - La Guardia del Giorno

- "Si diffida dal diffondere il presente testo che discredita l'operato della Luce"
                                                                            - La Guardia della Notte
  "Si diffida dal diffondere il presente testo che discredita l'operato delle Tenebre"
                                                                                  - La Guardia del Giorno

- "Il testo che segue non assume alcuna rilevanza per la causa della Luce"
                                                                      - La Guardia della Notte
  "Il testo che segue non assume alcuna rilevanza per la causa delle Tenebre"
                                                                            - La Guardia del Giorno

Questa doppia interpretazione dei fatti, delle scelte che compiono i personaggi è sempre presente. L'autore non prova mai a convincere che l'operato della Luce, i "buoni", sia giusto o che le Tenebre facciano per forza del "male". Mi ricorda molto la teoria dello Yin e lo Yang, che viene quasi citata in un passo nel quale viene specificato che alcuni della Luce possono non interessarsi a fare del bene quanto alcuni delle Tenebre possono essere stimati dottori che salvano vite tutti i giorni.

Allora cosa distingue l'una dall'altra?

Gli uomini. Questo è dato dal fatto che i protagonisti di queste due fazioni, Luce e Tenebre, sono "Altri", ossia persone dotate di poteri magici: nella luce sono maghi e maghe; nelle Tenebre militano streghe, stregoni, vampiri e mutantropi. La differenza, dunque, tra le due parti è che chi fa parte della Luce mette in campo le proprie abilità per salvaguardare il genere umano; le Tenebre, invece, sono disinteressati delle questioni degli uomini in quanto vogliono soltanto un tornaconto personale, senza preoccuparsi di chi possa rimetterci.

I libri sono raccontarti quasi nella totalità visti dagli occhi di Anton Gorodeckij, Altro della Luce, attraverso le sue paure, i suoi timori, fino a mettere in dubbio tutto ciò che l'aveva spinto a lottare per la Luce.

Ricco di suspence e colpi di scena, è un libro che mi ha affascinato tantissimo con le molte descrizioni dei luoghi che il protagonista attraversa, da Mosca a Praga.
Consiglio il libro soprattutto a chi piace il genere fantasy e vuole cambiare un po' dalle solite ambientazioni medievali.

lunedì 14 luglio 2014

Un viaggio dentro se stessi

Causa sessione estiva è da un po' che non scrivo nulla.
Nonostante stia studiando libri, e leggendone altri per svago in quei pochi momenti di pausa, oscillo tra il dover studiare e il voler far nulla, implicando quindi il non aver voglia di battere al pc qualche pensiero in riga perché "no", perché"dfgskha" rappresenta come sto ultimamente.
Tuttavia poiché dovevo fare una tesina, un testo breve su un argomento a mia scelta per l'esame di letterature anglo-americane, vorrei proporvelo. Effettivamente è il connubio tra parlare di libri, mie opinioni e studio, ergo "è bello e pronto e non devo fare lavoro aggiuntivo".
Enjoy.

Un viaggio dentro se stessi

Al giorno d'oggi la scoperta più grande che l'uomo possa fare è quella che riguarda se stesso e le proprie capacità.
Siamo infatti portati dal nostro modo di vivere, dalla tradizione, dalla società stessa ad uniformarci e tendiamo a rimanere sulla scia di tracce lasciate da generazioni a noi precedenti. Si entra in una viziosa monotonia dalla quale è impossibile fuggire, poiché in primo luogo manca la consapevolezza di poter uscire dalla routine. Si tende a dare molto per scontato e in questo modo si intorpidisce il nostro organo più importante, la mente. È questo che viene maggiormente criticato da Henry Thoreau in "Walden".
Egli è un esempio di come questo problema sussista da secoli, e indubbiamente risale a periodi ancora antecedenti. Tuttavia Thoreau vuole uscire dall'oziosa agiatezza e prende in mano il compito di risvegliare la coscienza sociale partendo da se stesso. Decise infatti di allontanarsi dalla società, non per ripudiarla, ma per poterla vedere sotto un occhio critico da un altro punto di vista. Rifiutò tutto quello che aveva fino a quel momento dato per consueto e decise di ricominciare da capo, per poter dimostrare quanto spirito vi sia in un singolo uomo.
È dal rifiuto che si passa ad una rinascita, il concetto chiave, se vogliamo, dell'opera. Abolendo tutte le certezze non può esserci altra possibilità se non iniziare da capo, letteralmente "rimboccandosi le maniche" come fece egli incominciando dalla sua stessa casa. Lo scrittore dimostra in maniera incredibilmente realistica e con tanto di note come la spesa di un piccolo capitale iniziale possa costruire una casa che durerà per sempre e che è propria in tutti i sensi; coltivando il minimo indispensabile produce il cibo di cui ha bisogno e che in alcuni momenti gli risulterà anche come introito.
Ma dove può avvenire questa rinascita se non nel mezzo della Natura, l'opposto della civiltà corrotta? Ed è per questo motivo che si ritirò a Walden Pond per due anni e due mesi, per poter essere più lontano possibile dalla società ma tuttavia avere ancora degli sporadici contatti, come alcuni visitatori che passavano di lì o attraverso passeggiate vicino ad altri laghi o fattorie. Infatti egli non si proclamava eremita, ma aveva bisogno di staccarsi dal contesto opprimente per poter distendere la mente e carpire tutto il possibile dall'ambiente e farne motivo di riflessione sulla sua condizione, ed infine farne specchio per la realtà di tutti gli uomini. La Natura infatti è fonte infinita di stimoli per la mente e lo spirito: si possono perdere giornate intere nel vedere il movimento delle nuvole o i cambiamenti della superficie del lago per il vento. Riuscire ad apprezzare l'ambiente che ci circonda è il primo modo per poter scoprire chi siamo: è infatti vedendo la Natura che troviamo somiglianze tra essa e noi, nella resistenza di un albero al freddo, nell'istinto vitale di una volpe che scappa, nel gioco di un uccello che si tuffa in acqua, nello sfoggio di abilità per pura volontà di dimostrarle a se stessi di un falco che si butta in picchiata dall'alto del cielo. Thoreau spende moltissime righe ad elencare tutti gli animali che gli facessero visita, raccontando le loro storie e come essi potessero influenzare la sua giornata, prima di tutto come compagni; di questi sottolinea tutti i suoni che lo accompagnano nel corso della sua esperienza, dall'alba a notte inoltrata, di come a volte non li potesse vedere ma sapeva che erano lì.
È fondamentale sottolineare lo stato di solitudine nel quale egli si pose in modo da poter riflettere in maniera più pura, in un ambiente calmo e calmante al tempo stesso. È importante dire però che la solitudine non è in realtà che uno stato mentale piuttosto che fisico: Thoreau vivendo a miglia dalla città era in realtà più presente di chi vi viveva in quanto è essa il fine delle sue riflessioni. Non si è soli finché non ci si sente tali, tanto in mezzo ad un bosco quanto in un appartamento pieno di persone. L'assenza di persone intorno a sé serve soltanto a "fare spazio alle idee", come dice lo scrittore, per poter affinare la mente nella circostanza più favorevole, nella tranquillità più assoluta. Inoltre è stando da soli si può ragionare a lungo poiché è più difficile essere distratti. Soprattutto colloquiando con qualcuno si tende a mantenere viva una discussione, e si adopera più la lingua che la mente. Sono rare quelle conversazioni nelle quali siamo portati a ragionare di più per trovare una soluzione comune. Lo stato sociale dell'interlocutore però non ha importanza, poiché è saggio tanto un altolocato filosofo quanto il più umile dei contadini che apprende le verità della terra toccandole con mano, a differenza dell'altro che compie solo lavori mentali. Thoreau infatti non nega mai il lavoro fisico per essere completi tanto nella conoscenza del corpo quanto in quella dell'intelletto.
È possibile risvegliare la mente anche attraverso i libri, che non sono altro che un doppio discorso: simultaneamente qualcuno racconta dei fatti a noi e noi li raccontiamo a noi stessi. Un libro deve infatti permettere di assorbire concetti, farli propri e iniziare a ragionare su di essi per arrivare a concetti più alti, verità assolute. E nella Natura, da soli, il libro è il compagno più fedele che si possa avere, in quanto è sempre lì pronto a dare informazioni e spunti di riflessioni. La cosa peggiore è infatti leggere un libro senza sostanza o, peggio ancora, non darsi modo di ragionare su quanto si legge. La passività è il male della società: incita alla routine, permette che tutte le ipocrisie possano persistere, poiché con essa si passa all'accettazioni di queste e all'inerzia, che ci spinge avanti solo perché ciò è quello che ci si aspetta che si faccia. Al contrario non vi è ricchezza maggiore di un testo che possa dare vita a pensieri che prima potevano essere tanto lontani dalla nostra mente e che invece successivamente sono così limpidi da diventare una lente attraverso la quale esaminare il mondo sotto una luce diversa.
Adesso pensare di abbandonare tutto e ricominciare da zero potrebbe essere considerato estremamente a-sociale perché si eliminano tutti gli "status quo", quando invece è l'azione più sociale che ci sia in quanto è il motore primo per poter scoprire ciò che possiamo davvero fare e migliorare come persone sotto tutti i punti di vista. Dovendo ricominciare da soli si nota come non siamo solo come la persona che dovremmo essere nella società, inquadrati in un solo ruolo per sempre, ma che possiamo essere ciò che vogliamo, e lo si scopre soltanto facendo questo cambiamento. Finché non ci si trova nella condizione di dover attingere alle proprie facoltà non si sa di possederle. Una volta ottenuta una conoscenza se non totale almeno buona di sé, possiamo iniziare il confronto con il prossimo e costruire insieme una società migliore.
Il rifiuto degli agi e del lusso è possibile interpretarlo con la Moda, ad esempio, sotto la quale la società tende a vivere ciecamente. Si giudica prima l'aspetto e poi la persona, di qualunque estrazione sociale essa sia. È ritenuto più importante essere aggiornati con i capi di abbigliamento e apparire benestanti piuttosto che dimostrare la purezza di spirito, la profondità di pensiero. Per citare un esempio Thoreau sostiene che è più facile per un uomo camminare in città con una gamba rotta piuttosto che con una gamba dei pantaloni rovinata, e questo concetto vige tuttora. Come si può uscire dal circolo vizioso di pregiudizi ed ipocrisia se non con l'abolizione del concetto primo? Per questo motivo lo scrittore scelse abiti di seconda mano, leggeri, che potessero durargli più a lungo possibile, senza pensare a se erano "belli" ma se erano "utili".
L'essenzialità infatti è la chiave dello stare bene, poiché rifiutiamo tutti costrutti, astrazioni inutili e ci riportiamo con i piedi per terra per cercare e trovare ciò di cui abbiamo davvero bisogno. Thoreau infatti sostiene che per il bene è perseguibile solo dopo aver ottenuto "Cibo, Riparo, Vestiario e Combustibile", e ciò basta per poter permettere alla mente di lavorare. Tutto ciò che si aggiunge è zavorra che ci impedisce di riflettere lucidamente, perché si è più preoccupati ad avere contingenze che a lavorare per il necessario.
Si può infine dire che se uno scrittore del XIX secolo sia arrivato a queste conclusioni e visse effettivamente meglio di molti di noi oggigiorno, poiché aveva il minimo indispensabile e di questo era felice, forse dovremmo provare a prenderlo come esempio ed almeno tentare di cambiare la quotidianità e scoprire ciò di cui siamo davvero capaci, non necessariamente andando da soli in un bosco, ma almeno afferrando i concetti di rifiuto della monotonia e di soddisfazione del poco che però è vero e puro.




Lorenzo L

lunedì 14 aprile 2014

Chi si cela dietro quella faccia?

Questa sera vorrei parlare di un libro che ho letto qualche tempo fa e che mi è piaciuto particolarmente. Volevo anche inserirlo nella mia tesina di liceo sul dramma esistenziale ma poi optai per "Waiting for Godot" (di cui parlerò poi quando sarà). Il libro a cui mi riferisco è "The strange case of Dr. Jeckyll and Mr. Hyde" di Robert Louis Stevenson.
Perché il titolo in inglese? Perché come per "Alice's Adventures in Wonderland" l'ho letto in lingua originale -libro sempre della mia amata Collins Classic-.
La trama la conosciamo bene o male tutti: questo pover'uomo costretto a vivere una seconda personalità più cattiva che purtroppo prende il sopravvento. Ma è veramente così?
Ciò su cui vorrei puntare le attenzioni è la posizione che prende Jekyll riguardo Hyde. Mi spiego. L'intento del dottore era ammirevole: incentivare la parte positiva dell'uomo così da avere un mondo migliore. Ma sperimentando su di sé ha invece tirato fuori la sua parte più nascosta e l'ha resa molto peggiore di quanto mai potesse essere -per questo Hyde è descritto come un uomo abominevole che parla in maniera inquietante-. Questa nuova "forma" del dottore è cattiva, incline alla violenza e indubbiamente un pericolo per la società. Allora è il caso che non si ripeta più la trasformazione per evitare spiacevoli incidenti per sé e per gli altri. Semplice no? Eppure... Eppure Jekyll continua a prendere la pozione e a trasformarsi. Perché?
Immaginate di poter avere una libertà incondizionata da tutto e tutti. Nessuno vi conosce. Potete fare quello che volete. Siete liberi dalla vostra monotonia. Avete un nuovo corpo da poter utilizzare e sfruttare. Forte. Già: forte. Da tutti i punti di vista. Forte fisicamente, ma soprattutto forte psicologicamente: ecco perché Jekyll soccombe, perché non pensava di poter perdere la battaglia sul proprio corpo. Così: accecato dal potere, dalla scoperta, dalla sua ormai dipendenza di quel qualcosa in più finisce col perdere l'unica cosa che gli appartiene davvero, che appartiene a ognuno di noi e su cui nessuno può (o meglio, non dovrebbe) sindacare. Ma cosa faremmo noi? Riusciremmo a capire il pericolo che è dietro l'angolo o ebbri di potere continueremmo ad avere bisogno di quel lato senza pensare alle conseguenze?
Questo piccolo libro mi ha dato spunto per molte riflessioni anche circa la scelta dell'uomo, tema a me molto caro. In fondo tutto possiamo essere il dottore, che scopriamo un lato di noi socialmente negativo che però ci piace e ci attrae. Ripeto il concetto della "società" perché è anche quello un motivo del perché a volte si preferisce essere Hyde: sempre chiusi nel nostro ruolo, a fare ciò che ci si aspetta che si faccia. Hyde è l'alternativa. Hyde è il diverso. Hyde è libertà. Ma anche su questo si può questionare. Si è veramente liberi quando si va contro i canoni, sia nostri che imposti? Jekyll inizialmente prova questa sensazione di leggerezza per poi scoprire l'orrore; e noi, riusciremmo a capire quando smettere?
Ovviamente la storia è fantastica ed volutamente esagerata per aumentarne il carattere grottesco e per creare una trama avvincente che colga l'attenzione del lettore; ma la tematica persiste, è lì, è valida e tutti possiamo porci il problema. Tutti noi abbiamo un lato nero, oscuro, chi più chi meno nascosto, che a volte sale. Quando è un problema e quando invece è positivo esprimerlo?
Consiglio a tutti di leggere questo romanzo tanto breve quanto intenso, e di scoprire la psicologia del dottore, del mostro e di chi gira intorno a loro e che vive le conseguenze delle azioni dei personaggi protagonisti.

This evening I'd like to talk about a book I've read some months ago that I really liked. I even wanted to put it in my high school final work about the existential drama but then I chose "Waiting for Godot" (I'll discuss about it further in time). The book I'm talking about is "The strange case of Dr. Jekyll and Mr. Hyde" by Robert Louis Stevenson. Like I did with "Alice's Adventures in Wonderland" I read this book in original language -by my beloved Collins Classic-.
We all know the plot: a poor man whose second personality threats him and that eventually will take advantage of him. But, is it really like this?
I'd like to focus Jekyll's behavior towards Hyde. I'll make myself clearer. The doctor's main purpose was admirable: he wanted to increase the men's better part to create a better world. But doing experiments on his own body he pulled out the inner side of him, his worst part, the littler between the two, and made it worse -that's why Hyde is described as awful and with a frightening voice-. This new "form" of the doctor is evil, likes violence and is a danger to society. So, it is necessary that the doctor does not transform anymore to prevent Hyde from hurting him or anybody else. Simple, isn't it? But still... But still Jekyll keeps on transforming and taking the potion. Why is that?
Imagine: you can have absolute freedom. Nobody knows you. You can do whatever you want. You're free from the common routine. You have a new body to use. Strong. Strong indeed. From every point of view. It is physically strong, but most of all it's psychologically strong: that's why Jekyll perished, because he did not think that he could lose the battle over his own body. The power, the discoveries, his addiction to that "something" made him blind and he ended up losing the only thing that he really owned, that everyone and each of us own and on what nobody can (or better, should) argue. But what would we do? Would we understand when the danger is right around the corner or, drunk with power, would we still need that side of us without thinking about the consequences?
This little book made me think about human's choice, subject that I really enjoy. In fact everybody could be the doctor: we find a socially negative side of us that we like and that attracts us. I want to repeat the "society" theme because that's why sometimes we prefer to be Hyde: we are always stuck in our "roles", we do what we're supposed to. Hyde is the alternative. Hyde is the different. Hyde is freedom. But we can argue about that. Is it real freedom going against every canon, created by ourselves or by others? At the beginning Jekyll feels good about it, but then he discovers the horror; and what about us, would we get when to stop?
Obviously the story is made up and it is exaggerated on purpose to raise his grotesque element and to create an interesting plot that can catch the reader's attention. Still the subject is there, it is possible and we all could think about this problem. Everybody has a dark side, someone deeper than others. When is it good or bad to let this side raise?
I suggest this novel, so short as intense, and to discover the doctor's psychology, the monster's and of everybody that is around them that lives the consequences of their actions.

venerdì 4 aprile 2014

L'importanza di una riscoperta

Questa sera -o meglio, questa notte- vorrei parlare di uno degli ultimi libri che ho letto e che ho apprezzato moltissimo. Nonostante lo abbia da molti anni avevo letto solo la prima metà, così di corsa da perdermi dei passaggi e non capire bene la trama, rimanendo così deluso e mettendolo con gli altri libri sullo scaffale. Verso l'inizio dell'università però per curiosità lo riprendo: mai scelta fu più giusta.
Il libro di cui sto parlando è "La leggenda di Earthsea", una pentalogia di Ursula K. Le Guin. I libri che la compongono sono in ordine "Il mago di Earthsea", "Le tombe di Atuan", "La spiaggia più lontana", "L'isola del drago" e "I venti di Earthsea".
Vorrei prima fare un riassunto generale in ordine cronologico (ciò implica che farò ahimè degli spoiler) di ciò che accade per poi passare alle mie considerazioni sul perché amo questo libro (Se volete saltate i riassunti e leggete il resto)

La pentalogia si apre con la storia di un ragazzo, Ged, detto Sparviero: egli scopre di essere mago e di avere un glorioso futuro che lo aspetta. Troppo ambizioso e arrogante evoca una forza maligna senza nome che prova ad ucciderlo. Fortunatamente si salva ed inizia a scappare, finché non capisce cosa deve fare e sconfigge questo essere -nelle considerazioni spiegherò perché- .

La storia prosegue spostandosi su un altro protagonista, Arha, la divorata, un tempo di nome Tenar. Ella è la sacerdotessa degli dei Senza Nome ed il suo unico compito è fare la loro volontà. È il capo spirituale del luogo, nonostante la giovane età. Tutta la sua vita è messa in discussione quando incontra Ged nelle Tombe dove nessuno può andare. Nonostante le prime avversità i due faranno amicizia, recupereranno la metà mancante dell'anello di Erreth-Akbe e scapperanno dall'isola assieme facendo vela verso il palazzo reale per riunire le metà e ritrovare la runa della pace.

Passano gli anni ed ecco un nuovo problema: i maghi perdono poteri e ragione, e come loro anche i draghi, che sono l'essenza della creazione stessa. Ged parte con Lebannen, il futuro re, alla ricerca di ciò che sta mettendo a rischio il mondo. Scoprono quindi che un folle mago promette la vita eterna in cambio del dono della Favella, ossia dell'uso del potere magico, compromettendo così l'equilibrio. Lebannen e Ged riescono a fermarlo, ma quest'ultimo scendendo nel regno dei morti perde tutti i poteri al fine di richiudere la ferita del mondo.

La storia quindi sposta la sua attenzione su Tenar, che ora ha una vita "normale" con marito e figli. Deve però lasciare questo piccolo mondo che si era riuscita a costruire poiché Ogion, il mago che istruì il giovane Ged, sta morendo e ha bisogno di lei per trasmettere il suo messaggio: tutto sta per cambiare. Tenar dunque inizia a vivere nella casa di Ogion con una bambina mezza arsa viva da dei banditi, Tehanu, che non parla e socializza pochissimo. Le due avranno più volte la vita a rischio poiché invise a un mago che stava provando a conquistare il potere a Re Albi. Quando alla fine Tenar, Ged e Tehanu stanno per morire compare un drago, Orm Embar, che dichiara Tehanu sua figlia.

Nell'ultimo romanzo assistiamo al viaggio che intraprendono Tenar, Tehanu ormai più che adolescente, e Lebannen, per scoprire perché i draghi attaccano gli uomini. Attraverso miti e leggende si comprende che il problema di fondo è la rottura dell'equilibrio avvenuta secoli addietro: gli uomini per paura della morte hanno eretto una barriera nel mondo dei draghi per custodire le anime. Quando finalmente il muro verrà buttato giù i draghi avranno nuovamente la loro terra e gli uomini avranno di nuovo la pace eterna.

Perché tutti questi preamboli? Perché ci sono così tante tematiche che hanno attirato la mia attenzione.
Il primo libro è l'emblema della conoscenza di sé e dei propri limiti. L'ombra che Ged deve combattere non è altri che se stesso: è la sua arroganza, è la sua boria, e soltanto prendendo atto di cosa avesse fatto e non avrebbe dovuto riesce ad imparare la lezione e a sconfiggerla. Emblematica è la scena nella quale Ged e Ogion, due maghi, passano la nottata sotto l'acqua senza usare la magia per proteggersi: ciò implicherebbe una modifica dell'equilibrio. Da ciò si evince come oltre alla forza sia di vitale importanza la saggezza, e Ged, cieco del suo potere, dimentica questo insegnamento.
Successivamente si mette in discussione il tema della religione e della chiesa. Nelle Tombe di Atuan vi è una sacerdotessa che non crede negli dei Senza Nome, ma crede nel potere temporale del re spietato dal quale lei può ottenere potere. Ciò che però non si aspetta è che gli dei ci sono, o meglio, sono delle "forze primordiali" che non hanno padroni o servitori, e morirà sotto il terremoto causato da queste.
Gli ultimi tre romanzi li unisco per alcuni filoni tematici, come quello dell'aldilà. Ho amato questa visione del mondo ultraterreno come arido, senza luce, con le montagne Dolore e le anime che si scontrano senza conoscersi. Questo tremendo spettacolo però non è altro che la creazione stessa dell'uomo, che ha deciso di crearlo così. Mi spiego. Vi è una concezione secondo la quale inizialmente uomini e draghi vivevano insieme sotto la stessa sembianza, simili a uomini alati. Alcuni di essi scelsero la libertà, i draghi; altri scelsero il potere e le cose materiali, gli uomini. Essi si divisero per sempre. Però comune a tutti c'è la visione della rinascita: il corpo muore ma l'anima rinasce -concezione fortemente induista a mio parere-. Gli uomini però per paura hanno reso il mondo idilliaco dei draghi la loro prigione, ed è solo distruggendo la paura della morte che possono vivere felici e per sempre. Ed io, che adoro il fantasy, una visione così bella e armoniosa non l'avevo ancora assaporata e ne sono rimasto fortemente colpito.
Ultimo elemento, ma non meno importante, sullo stile. Tutto il libro a volte sembra scorrere lento poiché è molto descrittivo, ci sono molti più pensieri che discorsi, più discorsi che azioni vere e proprie. È un libro sulla riflessione più che sull'agire pratico. Non ci sono epici combattimenti ma intriganti e ambigue conversazioni. Ed è proprio qui l'altro elemento eccezionale: l'ambiguità. Molti discorsi sono così oscuri da non avere quasi senso, a meno che non si continua a leggere e non si prosegue con i ragionamenti al fine di arrivare a capire il tutto.
Incredibile è la fine nella quale Ged chiede a Tenar cosa sia successo e le chiede di partire dalla fine e tornare indietro, e, non so voi, ma a me è piaciuta molto come cosa, forse perché diversa, forse perché strana, ma mi ha lasciato col sorriso.


E' decisamente un libro che consiglio a chi piace il fantasy: ricco di storie, risvolti filosofici, e nonostante abbia raccontato un po' tutto vi sono moltissime storie, motivi, personaggi che vi consiglio di scoprire da voi perché ne vale veramente la pena.





This evening -or maybe it's better to say night- I'd like to discuss about one of the latest books I read and I really enjoyed. Even though I've had this book for many years at first I read only half of it, so quickly that I got lost between the stories, and, disappointed, I put it on my bookshelf. When I started university, more or less, I started reading it again: that was a great choice of me.
The book I'm speaking of is "Earthsea", a pentalogy by Ursula K. Le Guin. The books that are in this pentalogy are "A wizard of Earthsea", "The Tombs of Atuan", "The farthest shore", "Tehanu" and "The other wind".
I'd like to do a summary of all these books first (that implies that, forgive me, I'll do some spoilers) and then I'll say my thoughts and the reason why I love this series so much (If you want to skip the summary you can still read my considerations).

The pentalogy starts with a boy, Ged: he finds out that he's a wizard and he will have a glorious future ahead of him. But he's too ambitious and arrogant and he summons a nameless evil force that tries to kill him. Luckily he escapes, until he gets what he has to do to destroy this thing -I'll tell later why and how-.

The story continues shifting to another protagonist, Arha, the eaten one, Tenar when she was younger. She is the high priestess of the Nameless Ones and she has to glorify them. She is the leader of the place even though she's very young. All her life is questioned when she meets Ged where no man was allowed. After few discussions they'll stick together and get the missing half of the ring of Erreth-Akbe and they'll run away from the island sailing to the royal palace to assemble the two halves and discover the peace rune.

Some years later a new problem approaches: wizards are losing powers and reason, as dragons, the true essence of creation itself, are. Ged starts a new adventure with the young Lebannen, the future king, to figure out what is messing the world up. They find out that a crazy wizard promises the eternal life in exchange of the Speech power, giving up their powers, changing in this way the balance. Lebannen and Ged stop him, but Ged going into the land of the dead he lose all his power to fix the wound of the world.

The story now is about Tenar, who has a "normal" life with a husband and kids. She has to leave this pretty world she got because Ogion, the wizard that taught Ged when he was young, is dying and he must tell her his message: everything is going to change. Tenar moves in Ogion's house with a half-burned alive child, Tehanu, who does not talk or communicate in any way. The two of them will risk their lives many times because of some bandits and a wizard that hate Tenar because he was going to gain the power over Re Albi. In the end Tenar, Ged and Tehanu are going to die but suddenly a dragon appears, Orm Embar, saves them and says that Tehanu is his daughter.

In the last novel we read the journey of Tenar, Tehanu which is now a bit older then a teenager, and Lebannen, to find out why dragons attack humans. Through myths and legends we get that there is a problem with the balance that started lots of centuries before: men, scared of death, created a wall in the dragon world to keep their souls. When the wall will be broken dragons will have their own land and mankind will have eternal peace.

Why the long introduction? Because there are so many themes that caught my attention.
The first book represents the knowledge of oneself and the limits of one's abilities. The shadow that Ged has to defeat is nothing but himself: it's his arrogance, his haughtiness, and only by understanding what he did and should have not done he gets his lesson and succeeds in defeating it. It's emblematic the scene which features Ged and Ogion refraining from using wizardry to keep them warm and dry under a night rain because that would have meant a change of the balance. From this we understand the importance of wisdom, and Ged, blinded by his own power, forgot this for a while.
Then the religion theme is questioned, and the "church" with that. In the Tomb of Atuan there is a priestess that does not believe in the Nameless Ones, instead she believes and fears the power of the God-Emperor. Unluckily for her the gods do exist, or with better words there are "primordial forces" who have no masters nor servants, and she will die from an earthquake made by them.
The last three books I'd like to keep them together due to their themes, such as the afterlife. I loved this idea of a sterile, lightless world, with the Mountains of Pain and with souls that walk into each other without recognizing anyone. This fearful scenery is nothing but a creation of mankind, because he chose to make it like that. I'd like to make myself clearer. There is an idea by which at the beginning men and dragons were the same thing. Some of them chose freedom, dragons, some of them chose power and concrete things, mankind. They chose to be divided forever. But everybody could never die because everyone's soul would always be born again - like Hinduism thoughts - . But men fear death and they made this wonderful world of the dragons their prison, and only overcoming the fear of death they can live happy and forever in peace. I love fantasy books and I never had found such a beautiful version of the afterlife and I really enjoyed it.
Last but not least, the style was really interesting. The whole book seems quite slow due to its many descriptions: there are more thoughts than speeches, more speeches than actions. It's a book about meditation more than practical actions. There are not epic fights but intriguing and ambiguous conversations. And that's another great element: ambiguity. Many speeches are so obscure that they seem to not have a sense at all, unless one keeps reading and thinking about that and finally figuring out what this or that meant.
It's amazing the end in which Ged asks Tenar what has happened and she asks her to begin from the end and going backwards, and I don't know about you, but I liked that, maybe because it's different, maybe it's strange, but it made me smile.

I totally recommend this book to the ones that like fantasy books: it's full of stories and philosophical implications, and even though I said quite a lot there are lots and lots of stories, themes, characters I suggest you to discover on your own because it really worth a while.

lunedì 31 marzo 2014

Un Paese tra le mani

Una delle domande più frequenti che si ricevono quando si leggono libri è "Ti piace?". Ci sono volte, però, che una risposta univoca minimizza cosa il libro ti sia riuscito ad ispirare.
Ciò mi è successo con "L'odore dell'India - con 'Passeggiatina ad Ajanta' e 'Lettera da Benares' " di Pier Paolo Pasolini. Questo libro è una sorta di diario tenuto da Pasolini durante il suo soggiorno in India con Moravia ed Elsa Morante.
Ciò che mi ha colpito è "un'oggettività soggettiva". Mi spiego. Anche Moravia scrisse un libro circa questo viaggio, come dice l'autore stesso, che però è molto più dettagliato del proprio. Anzi, descrivendo alcuni aspetti della cultura indiana dice espressamente al lettore che se ne voleva sapere di più avrebbe fatto meglio a leggere il testo di Moravia. Pasolini descrive quello che fanno, ciò che vede, ciò che pensa, confronti tra il proprio mondo e quello nel quale si trova a vivere per questo breve lasso di tempo. È incredibilmente oggettivo nello scrivere i modi di fare, gli abiti ed i riti che compiono, lasciandosi un cantuccio per dare la sua impressione personale. Sono sicuro che lo stesso viaggio narrato da Moravia ha un sapore diverso, perché è diverso il punto di vista.
Pasolini descrive con profondo rispetto ed incredibile schiettezza quale mondo si para di fronte ai suoi occhi: non si risparmia di scrivere i moribondi, i lebbrosi, i mendicanti che fanno l'elemosina, il lurido che investe le silenziose città. Si sente l'apprezzamento della cultura indù della non-violenza sopra quella musulmana. In uno degli ultimi capitoli fa un netto confronto tra lo sfacciato musulmano Abdullah e il timido indù Bupati, facendo trapelare la "preferenza" verso il secondo per i modi di porsi così semplici.
Ciò che si apprezza della cultura indiana è il loro vivere col sorriso nonostante il mondo sia povero, sporco, con poche possibilità. Viene quasi da mettere a confronto i mendicanti che fanno l'elemosina con la piccola borghesia che sta nascendo: i primi sono sorridenti, al loro posto, socievoli, dolci nei modi; gli altri, sebbene ancora pochi, sono molto meno miti e sono insoddisfatti della propria vita poiché aspirano a modelli occidentali.
Ciò che mi ha colpito soprattutto di quanto è raccontato è il canto che pervade nelle stradine, nelle case: bambini, donne che cantano la loro condizione. Mi pare opportuno riportare l'impressione dello stesso Pasolini a riguardo:

"Eccoci qua [...], poveri indianini, con questi nostri panni che appena ci coprono i piccoli corpi, nudi e scuri come quelli degli animali, agnellini o capretti. Andiamo a scuola è vero, studiamo. Ecco qui intorno i nostri signori professori. Abbiamo una nostra antica religione, complicata e un poco terribile, e, per di più, proprio oggi, con bandiere e piccole processioni, celebriamo la festa della nostra indipendenza. Ma quanta strada c'è ancora da fare! I nostri villaggi sono costruiti col fango e con lo sterco di vacca, le nostre città non sono che dei mercati senza forma, tutti polvere e miseria. Malattie di ogni genere ci minacciano, il vaiolo e la peste sono di casa, come i serpenti. E ci nascono tanti fratellini da dividerci. Cosa succederà di noi? Cosa possiamo fare? Però, in questa tragedia, resta nei nostri animi qualcosa che se non è allegria, è quasi allegria: è tenerezza, è umiltà verso il mondo, è amore.. Con questo sorriso di dolcezza, tu, fortunato straniero, tornato nella tua patria ti ricorderai di noi, poveri indianini..."

Un'altra cosa che mi ha colpito molto -cosa che potete notare anche dall'estratto- è l'uso insistente della punteggiatura. Sembra quasi che Pasolini ci stia parlando, e adoperi ogni pausa come per prendere fiato, per incalzare il discorso che sta facendo. Anziché intraprendere un lungo periodo ricco di dettagli si sofferma di più sul particolare, donando molto più pathos a ciò che dice. Non vuole che ci si perda nel mezzo della città, ma vuole mostrarci ogni via, ogni angolo dove può nascondersi una storia degna di essere raccontata.
In conclusione posso dire che bisogna prendere questo libro per quello che è: un diario di viaggio. Poiché sono affascinato da tutto ciò che non è il mio quotidiano ho potuto apprezzare un mondo così distante ma al contempo così reale. Non ho avuto la sensazione di distanza leggendo, ma mi sentivo lì a vedere ciò che vedeva lui. Un acquisto che posso consigliare.






One of the most frequent questions one could be asked when he's reading a book is "Do you like it?". There are times, however, that a simple answer could minimize what the book has inspired you.
This happened to me with "L'odore dell'India - con 'Passeggiatina ad Ajanta' e 'Lettera da Benares' " by Pier Paolo Pasolini. This book is a kind of diary held by Pasolini during his journey to India with Moravia and Elsa Morante.
What caught my attention is a "subjective objectivity". Let me explain myself. Moravia wrote a book about this journey too, as the author himself tells us, which is more detailed than its own. Speaking of Indian culture he even says that Moravia's book is better if you want more information about it. Pasolini describes what they do, what he sees, what his thoughts are, comparisons between his world and the world he lives in this very moment. He is incredibly objective in writing what Indians do, clothes, the rites they do, leaving at the end a little place for his impressions. I'm sure that the same journey written by Moravia has a different taste, because it's different the point of view.
Pasolini describes with strong respect and incredible straightforwardness what world he experiences: he doesn't spare to write about dying people, lepers, beggars, the filth that covers silent cities. We can perceive his appreciation of Indian non-violence over Muslim culture. In one of the last chapters he makes a comparison between the bold Muslim Abdullah and the shy Indian Bupati, pointing out his "preference" towards the second one for his easier ways of being.

What is likely to appreciate about Indian culture is their living always with the smile on their faces, in spite of their world which is poor, dirty, with few possibilities. We are encouraged to compare beggars and the small emerging bourgeoisie: the first ones are with the smile, they respect their place, they are friendly, kind; the others, even though there are quite few of them, are less friendly and they are dissatisfied because they aim for occidental ways of living.
What drags my attention was overall the description of their singing that runs through little streets, in the houses: kids, women that sing their condition. I think it's important to report what Pasolini himself says about it:

"Here we are [...], little Indians, with our clothes that can barely cover our little bodies, naked and dark as the animals', lambs or goats. We go to school, it's true, we study. Here they are our teachers. We have our old religion, hard and quite terrible, and, moreover, this very day, with flags and small processions, we celebrate our independence. But how much we still must do! Our villages are built up with mud and cow's excrement, our cities are but shapeless markets, dirty and poor. Diseases of all kinds threat us, the smallpox and the plague are always here, as snakes are. And lots of brothers are born that we must divide between us. What will be of us? What can we do? But, in this tragedy, there still is something in our souls that if it's not joy, it's almost joy: it's tenderness, it's humility towards the world, it's love... With this smile of sweetness, you, lucky stranger, once you'll be back in your hometown you will remember us, poor Indians..."

Another thing that I noticed -you can get it even with this extract I've written- is the use of punctuation. It's like Pasolini is speaking to us, and he uses every pause to catch his breath, as if he was actually talking. He does not write so many long sentences full of details, but he focuses on the part, giving more pathos to what he's saying. He does not want us to get lost through the city, he wants to show every street, every spot where could hide a story worthy to be told.
In the end I can say that we must take this book as it is: a journey book. I'm fascinated with everything that is not what I experience every day I enjoyed a world so far from me but at the same time so real. I never had the feeling of "being out" of what I was reading, but I felt there seeing what he saw. A purchase I could suggest.

martedì 25 marzo 2014

"Tutto sommato, la felicità è una piccola cosa"

Questa sera vorrei parlarvi di un libro che ho finito proprio oggi, ossia una raccolta di poesie di Trilussa.
Una premessa è quanto mai doverosa. Carlo Alberto Salustri, aka Trilussa, è un poeta romano di fine '800 ed inizi '900. Scrisse tutte le sue opere nel dialetto romano di allora, ossia "un toscano sporcato nel Tevere". Non fu però il primo: di fatti dovette confrontarsi con le opere di Giuseppe Gioacchino Belli, un poeta del primo '800 che scrisse anch'egli in dialetto. Trilussa quindi deve reggere il confronto con la storia che lo precede, e il dialetto potrebbe sembrare un azzardo: Belli è stato lodato, esaltato, è il simbolo del dialetto romano in versi. Ciò che però fu l'innovazione di Trilussa fu che decise di non cantare il popolo più basso, con il dialetto come metodo per far risaltare la classe meno colta, ma di raccontare della piccola borghesia, a volte anche piccola nobiltà; ma soprattutto fu grandioso ed unico nell'utilizzo della favola. Compie in questo modo una "spinta verso l'alto", come definiscono i critici, ossia l'utilizzo del dialetto per caricare i suoi personaggi di un sapore diverso. La produzione fu assai prolifica e i motivi centrali erano la satira -anche se non da subito- politica ed ecclesiastica, la critica ai vizi umani in modo sempre più assoluto. Altra particolarità è che parte spesso da fatti di cronaca che lui stesso leggeva sul giornale, da cui traeva spunto e che poi cantava.
Chiarire chi fosse Trilussa mi permette di spiegare perché di primo impatto ho apprezzato tanto le sue poesie: sono anch'io romano -anche se non del centro ma di periferia-. Un tempo il dialetto era il verbo dell'ignoranza, di chi non conosceva la lingua ufficiale perché non aveva potuto studiare. Al giorno d'oggi a volte è così, ma spesso parlano in dialetto le persone che non hanno voglia di impegnarsi a parlare l'italiano "corretto". Va precisato però che l'uso del dialetto aumenta la portata emotiva e "teatrale" di chi lo sta usando. Ci sono espressioni, modi di dire, frasi fatte o proverbi che soltanto in dialetto hanno quel qualcosa in più che li contraddistingue e che li rende speciali. Per questo ho amato Trilussa: perché riesce ad unire molteplici fattori con abile maestria. Utilizza il dialetto, ma in versi -ad esempio sonetti e madrigali- e in rima, dando quindi "uno stile alto ad una lingua bassa"; riesce a dipingere quadretti a volte di vita quotidiana, a volte più allegorici, di colori accesi e vivi, di un sapore squisito, che solo il dialetto romano poteva riuscire a dare.
Altro motivo per cui ho apprezzato molto queste poesie è stato il "sorriso triste" che spesso lasciano, assieme spesso a storie con un forte carattere di "black humor". Sono storie che hanno per lo più temi malinconici -morti, vizi, guerra, satira politica, tradimenti, sfruttamenti etc. -, ma sono narrati quasi per riderci su, per non prendere troppo sul serio le questioni. Quando finivo un componimento mi rimaneva il sorriso, o magari una piccola risata, ma sempre con quel sapore, quel retrogusto un po' triste che mi faceva riflettere di più su cosa avevo letto. Il fatto che non siano opere fine a se stesse, ma che alimentano ragionamenti è un ulteriore motivo del perché sono stato così soddisfatto di questa raccolta.
Vi consiglio di leggere le sue poesie, ma -per chi non fosse romano- con un glossario che spieghi alcune espressioni e modi di dire che altrimenti sarebbero incomprensibili.



This evening I'd like to talk about a book I've finished today, a collection of poems by Trilussa.
I must do an introduction to make clear who he was. Carlo Alberto Salustri, aka Trilussa, was a Roman poet of the late 1800th and early 1900th. He wrote all his poetry in the Roman dialect of the rime, which was a "Tuscan dialect got dirty in the Tiber". He was not the first poet to do that: before him there was Giuseppe Gioacchino Belli, poet of the early 1800th. Trilussa has to stand in front of the history that was behind him, and using the dialect may seems a risk: Belli was the symbol of Roman dialect in verses. But Trilussa decided not to sing the lower classes, but the small bourgeoisie and sometimes the small aristocracy; but most of all he was great with fable stories. In such a way he did a "push to the top", as some critic says, which means that he uses the dialect to give his characters a "different taste". His poetry was very large and the main themes were the political and ecclesiastical satire -but not at the very beginning-, a critic to human vices in a was more and more absolute. Another characteristic is that many times he based his poems on current events that he read and then sang about.
Making clear who Trilussa was allows me to explain why at first sight I liked his poems: I am a Roman myself -even though not in the centre but in the suburb-. Many years ago the dialect was the language of ignorance, of people that could not afford to study the "main language". Nowadays it is sometimes like this, but most people speak through dialect because they don't want to make the effort to speak the "correct" Italian. However the dialect allows people to have more powerful and "theatrical" speeches. There are idioms, sayings that only with the use of dialect gain that something more that makes them special. This is why I loved Trilussa: he succeeded in combine many things all together. He uses the dialect, but in verse -such as sonnets and madrigals- and in rhyme, giving in that way a "high style to a low language"; he painted pictures, sometimes about day life, sometimes more allegorical, that are colorful, with a great taste that only Roman dialect could gave.
Another reason for my love to these poems was the "sad smile" that they give you, often with "black humor" stories. Most of them have melancholic themes -dead people, vices, war, political satire, betrayals, mistreatments etc. -, but they are told as to laugh about them, to take those things less seriously. When I finished a poem a smile was on my face, sometimes a giggle, but always with that sad taste that made me think about what I have been reading. The fact that those are not poems for their own sake, but that reinforced thoughts was a big boost to me, that made me like even more the book.
I would recommend you to read his poems, but I think it's quite difficult to understand him, for he changes lots and lots of words, even articles, and it is very hard to translate him for foreign people.